“Creare è non copiare” diceva Gualtiero Marchesi. “Copy Nothing” è il nuovo pay off di Jaguar. Per una strategia vincente, però, la parola chiave resta “coerenza”. Fare piazza pulita del proprio passato e della propria filosofia coltivata negli anni, in modo troppo improvviso, rischia di essere percepito come un tradimento da parte del proprio pubblico.
di Annalisa Cavaleri
E’ sulla bocca di tutti il rebranding di Jaguar. Colori rosa e protagonisti gender fluid, il logo che non si vede mai, e nemmeno l’auto. La nuova comunicazione è sulla bocca di tutti ma nel lusso non basta “che se ne parli”.
La comunicazione del lusso, infatti, è molto diversa da quella del mass market. Un prodotto della grande distribuzione deve piacere a tutti, il più possibile e deve essere comprato il più possibile. Lo scaffale deve essere sempre pieno e, se c’è più richiesta, le aziende si adegueranno, producendo di più. I manager dei brand della grande distribuzione hanno un compito: vendere a doppia cifra.
Il lusso gioca un altro campionato: il lusso è per pochi. La clientela del lusso sceglie un brand perché permette loro di differenziarsi dagli altri, perché fa sentire “persone speciali”. Chi acquista il lusso non vuole vedere il prodotto o il brand in mano a tutti, disponibile per tutti, ma vuole appartenere a una cerchia sempre più ristretta e sempre più esclusiva. E’ la funziona ontologica del lusso.
Quindi, se il brand del mass market deve piacere a tutti, il più possibile, il brand del lusso invece accetta di non piacere a tutti. Il brand del lusso crea le mode, guarda al futuro e, proprio per questo, di solito non piace subito “alle masse”: loro “seguiranno”. Quando quel brand del lusso inizierà ad essere adottato da star, vip e persone posizionate in alto nella piramide sociale (per successo, soldi, visibilità) allora anche il pubblico cambierà opinione. Il lusso è trendsetter e guida le masse. E’ disposto a non piacere, in una fase iniziale, pur di imporre il proprio messaggio. Decide il futuro, non si “accoda”.
Tutto questo funziona, a patto di non stretchare troppo la propria identità. Lo spot di Jaguar è un esempio di un brand del lusso che ha fatto il passo “un po’ troppo più lungo della gamba”. Nella pubblicità che lancia il rebranding, l’auto scompare completamente, gli stilemi del brand sono opposti ai precedenti: si passa dal grigio al colore, dalla mascolinità alla “James Bond” ai colori accesi del gender fluid. Lo spot strizza l’occhio alla comunicazione della moda, ma in modo così estremo da far perdere l’orientamento al pubblico.
Ciò che vale la pena sottolineare, in positivo, è che il brand Jaguar è stato decisamente coraggioso: ha guardato bene la società, ha visto il suo cambiamento epocale, ma – e qui sta il problema – l’ha raccontato facendo tabula rasa dell’essenza del marchio e del suo passato.
Di per sé “Copy Nothing” – il nuovo pay off – è una frase azzeccata e funziona. Non copiare nessuno, l’essere unici è l’essenza del lusso. “Creare è non copiare” diceva Gualtiero Marchesi, sottolineando che solo chi era in grado di tracciare una strada unica e originale avrebbe avuto successo, magari non nell’immediato, ma sicuramente perseverando. Ogni scelta della sua vita è stata presa con questa convinzione, contro tutti, sia quando decise di ricreare il classico risotto alla milanese come un’opera d’arte – con il piatto Riso, oro e zafferano – oppure quando pensò di mettere opere d’arte nel suo ristorante di Bonvesin de la Riva, suscitando l’ira dei critici d’arte che urlarono allo scandalo “perché le opere d’arte stanno nei musei e non nei ristoranti”.
Il cliente acquista il brand del lusso proprio perché vuole sentirsi unico e speciale. Perché vuole “assorbire” i valori del brand che lo elevano e rendono migliore. In questo caso di Jaguar, però, il messaggio è ottimo ma la parte visuale toglie ogni punto di riferimento classico e tradizionale del brand, in primis il suo essere “british“. Quando Marchesi lanciò la sua rivoluzione partì dalla ricetta più tipica della sua tradizione, il risotto alla milanese.
Il problema – forse – è che il brand Jaguar non è oggi abbastanza forte per essere capofila di questa nuova visione. Nella strategia di marketing e di comunicazione la parola chiave per strategie vincenti è sempre “coerenza” e Jaguar ha fatto un cambio troppo repentino per essere capito a fondo. Non si può passare un colpo di spugna totale sul proprio passato, pensando di ridefinirsi da zero. Anzi, il brand del lusso deve far tesoro della propria storicità, delle proprie radici, del proprio passato.
Forse l’errore più grande del rebranding Jaguar sta proprio qui: non tanto nel messaggio – visto che il cambio di società è reale – ma aver cancellato del tutto ciò che ha reso forte il marchio nel passato. Prendere la propria pagina Instagram, azzerarla e ricominciare da zero, non è ciò che dovrebbe fare un brand del lusso. Mai. Togliere ogni riferimento al brand o all’oggetto “auto” può essere un’operazione visionaria, un messaggio forte, ma in questo caso è un’operazione di marketing e comunicazione così improvvisa che fa l’effetto di una doccia fredda. Se abbiamo abituato la nostra nicchia di pubblico a un certo messaggio, non possiamo negarlo in un secondo.
Per il pubblico, una comunicazione così improvvisa e così lontana dalla filosofia del brand, rischia di venir vissuta come un “tradimento”. Lo dimostrano i migliaia di messaggi negativi che, giorno dopo giorno, si accumulano sulle varie pagine social che lanciano il nuovo spot.
Si sarebbe potuto, per esempio, giocare in modo ironico sulla forza da “maschio alfa” che per anni l’ha caratterizzata, stemperarla, ridendo un po’ su di sé, ma senza azzerarsi. Questa operazione è stata fatta bene in passato da BMW, altro brand del lusso, che con la serie The Hire ha chiesto a otto registri di raccontare il brand dal punto di vista autoriale. Si trattò di un’operazione vincente perché i mini film non vennero percepiti come pubblicità, ma come piccole opere d’arte.
BMW, “facendosi raccontare” dai registi, senza dare loro dei limiti, in modo autoriale, fa la scelta di accettare un punto di vista artistico che trasforma gli spot in qualcos’altro, in piccole opere d’arte. Ma c’è una grande differenza rispetto al rebranding di Jaguar. Nella serie The Hire, il brand resta visibile, seppur non “urlato”, e l’auto, nella sua funzione, resta protagonista. Anzi, grazie allo sguardo del regista, acquisisce una luce di co-attore nei film. Quando Clive Owen fa salire sulla BMW la star Madonna, portandola in una rocambolesca corsa in una città immaginifica, l’auto diventa l’aiutante perfetto dello spericolato autista, dimostrando le proprie capacità prestazionali, senza bisogno di parlare di velocità, accelerazione, stabilità su strada, sicurezza e agilità. In sette minuti di divertimento lo spettatore si concentra sulla scena, dimenticando il brand ma, a fine della visione, si renderà conto, in modo istintivo, chi era il vero attore protagonista: non Madonna, non Clive Owen, ma il brand BMW.
Jaguar ha, però, ancora una possibilità di successo: se nel suo essere stato così dissacrante e visionario verrà capito, apprezzato e sostenuto nel suo messaggio dedicato alla “società del futuro” dalle élite culturali – opinion leader, star, personaggi pubblici, esponenti del mondo della musica e dell’arte – allora gli altri seguiranno. Le masse seguiranno e torneranno a guardare il brand con occhi sognanti. Successo o meno, la negazione del passato del brand è un’operazione sconsigliata per qualunque brand del lusso voglia traghettare il proprio heritage nel futuro.
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